LIBERI PENSIERI 

QUELLA MALEDETTA PAURA DI NON ESSERE ALL’ALTEZZA

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di Letizia Ciancio | Letti da me

A chi non è capitato almeno una volta di sentirsi inadeguato, o di sentire di non essere abbastanza qualcosa? Abbastanza intelligenti, abbastanza belli o magri o alti, abbastanza performanti, abbastanza simpatici o popolari e così via. Una tendenza questa, che si manifesta in modo particolarmente marcato in adolescenza ma che oggi sembra diffondersi in modo virale a qualsiasi livello, indipendentemente dall’età o dal contesto sociale e culturale.

In passato un sentimento diffuso era il senso di colpa, forse per il prevalere di un sistema educativo improntato alla disciplina e all’autorità, al quale si cercava di reagire trasgredendo le regole. Oggi questo sentimento sembra del tutto tramontato, forse per via di modelli educativi basati su relazioni paritarie e comunque meno rigorosi, se non del tutto carenti di limiti. Di contro e quasi paradossalmente, oggi sembra aumentare il sentimento di inadeguatezza, ben oltre la normale fisiologia di una condizione di per sé necessaria al superamento dei propri limiti e al superamento delle sfide che portano l’individuo a costruire la propria identità, tagliando per così dire il cordone ombelicale con i genitori.

Ho l’impressione che il nuovo contesto sociale, mediato dalle tecnologie, abbia avuto un ruolo dirimente nel diffondersi di quella che può diventare una patologia invalidante a tutti gli effetti: l’atelofobia, letteralmente paura o fobia (phóbos) dell’imperfezione o incompletezza (atelès) A livello clinico rientra tra i disturbi d’ansia e si esprime con la paura irrazionale e persistente di commettere errori, essere criticati o non soddisfare gli standard di perfezione propri o istillati da altri (compresi i modelli diffusi dai media…). Una paura che può portare, oltre all’ansia, bassa autostima e reticenza nel compiere azioni rischiose o nel tentare nuove attività per paura di fallire. Chi ne soffre diventa molto critico nei confronti di tutto ciò che dice o fa e manifesta una tendenza all’insoddisfazione generale che si traduce in un’insicurezza in molteplici ambiti sia professionali sia personali e che nei casi più gravi può arrivare agli attacchi di panico.

L’atelofobico cerca costantemente di perfezionare, rielaborare o migliorare qualcosa che è già molto apprezzato da coloro che le circondano o si pone continuamente obiettivi che gli permettano di sentirsi gratificato ed accettato, ma si tratta spesso di obiettivi impossibili da raggiungere che per questo alimentano un circolo vizioso di insoddisfazione e frustrazione. Ma questa condizione va ben oltre all’abitudine di stabilire standard troppo elevati che caratterizza anche il perfezionismo, perché paralizza e blocca i rinforzi anziché motivare. Molti perfezionisti rispondono all’ansia lavorando di più. L’atelofobico viceversa si paralizza, non agisce, evita le situazioni nuove pur di scansare possibili fallimenti. Il perfezionista desidera ottenere un risultato per avere successo personale. L’atelofobico non punta al successo personale ma alla “perfezione” in quanto tale, con ciò condannandosi all’imperfezione…

Le cause di questo disturbo, a qualsiasi livello di gravità si manifesti – da un lieve sentimento di inadeguatezza alla compromissione del regolare svolgimento delle attività quotidiane – non sono ancora chiare. Potrebbe trattarsi di una predisposizione genetica o di un evento traumatico, ma sembra che nella maggior parte dei casi si tratti di una reazione appresa che compare già in tenera età e che nel corso degli anni si intensifica fino a diventare cronica. Talvolta a causa delle aspettative eccessive di amici, insegnanti o genitori, o ancora per il ricordo di un fallimento particolarmente significativo. Le donne risultano statisticamente esserne maggiormente colpite, probabilmente per il diverso sguardo e le diverse aspettative con cui, sin da bambine, vengono osservate ed educate.

CIÒ DETTO, COME NE USCIAMO?

Tralasciando gli aspetti clinici non di pertinenza di questo blog, alcune indicazioni possono essere utili in termini di auto-aiuto. Mi piace definirlo paradigma del “quanto basta”. Non un passivo “accontentarsi”, ma la ricerca di equilibrio tra un funzionale livello di ambizione al miglioramento continuo e la soddisfazione per ogni singolo passo compiuto in quella direzione. I greci lo chiamavano katametròn, la “giusta misura”. Concretamente, si tratta di apprendere a porsi obiettivi che siano adeguatamente definiti, che per noi abbiano un valore e che siano realistici, cioè realizzabili in base al contesto e al tempo che abbiamo. Poi, imparare a riconoscere a noi stessi i piccoli o grandi successi ottenuti, valorizzando gli sforzi compiuti e la costanza dell’impegno.

In sintesi, dovremmo fare chiarezza su ciò che davvero ci interessa realizzare, valutare a che punto siamo rispetto a questo e impegnarci a realizzarlo, un passo alla volta, invertendo la naturale tendenza a minimizzare i risultati raggiunti e massimizzare ciò che ancora manca. Un po’ come quando dobbiamo scalare una montagna, se guardiamo fissi la cima, questa ci apparirà sempre lontana rendendo frustrante la risalita; se viceversa ogni tanto ci fermiamo e ci voltiamo all’indietro, ci rendiamo conto con stupore di quanta strada abbiamo percorso e così ci ritempriamo per proseguire il nostro cammino.

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